Sono le sei di mattina. È l’alba da poco. È domenica. Una ormai come tante che trascorro in Ospedale. C’è chi dedica questo giorno al Signore, al riposo, alla famiglia. C’è chi, come me e come altri, cerca il Signore nel volto della sofferenza, della solitudine, del dolore. Non è facile capire cosa si prova se non ci sei dentro e non ci sei da bambino. Già, da bambino. Penso che tutti noi siamo come un pavone e possediamo un vestito fatto da mille colori. Tanti colori, belli. Ma spesso siamo nudi perché distratti e non lo indossiamo. Se siamo figli di Dio abbiamo non solo un DNA che ci fà somigliare ai nostri genitori ma un DNA che deriva dal nostro Padre Vero che non si puo’ individuare con la ricerca scientifica, con il microscopio. Ma c’è. Purtroppo esiste anche il male in noi. Ed è la vita che ti accompagna, le debolezze, la ricerca di tenerezze che nessuno ti dà, la voglia di trovarle con il potere, con il denaro che a volte ti mette in risalto il male e fa soccombere il bello che è in noi. Ma siamo tutti figli e pertanto perdonati. Ci sono dei fatti, delle circostanze della vita che mettono in risalto dei colori del nostro vestito, a noi più che ad altri. Ma, pur di ottima matrice, non sempre tiriamo fuori i nostri talenti.
La nostra sensibilità, ad esempio, si acuisce con il dolore, con la tristezza. Chi riesce a tramutarla in bene è fortunato. Lo è di meno chi si deprime. La mia storia inizia da bambino appunto. Nella mia famiglia c’è Anna. Anna, primogenita, 55 anni. Alla sua nascita un ematoma cerebrale da trauma per il forcipe l’ha resa handicappata, scusate volevo dire “diversamente abile”. Crisi convulsive, pianti notturni, incontinenze, deliri, vomiti, sono stati all’ordine del giorno. Il terzo figlio, io. Il primo maschio.La mattina, prima di andare a scuola, controllavo il cuscino di Anna ed era sempre macchiato di sangue. “I denti” mi diceva la mia povera mamma. La sua passione sono i giornali. Li tiene sotto il braccio come se fossero degli affetti, e li distrugge quando se la prende con la vita. Ma gli occhi, quelli, sono neri, intensi, grandi. Mi sono sempre chiesto cosa cercassero da me questi occhi e cosa potessi fare per vederli più felici. Nulla. Non potevo fare nulla per lei. Mi resi conto che “era prigioniera nel suo corpo” senza aver commesso mai delitto. Decisi così di studiare medicina. Forse poteva essere un modo per aiutarla. Così mi trasferii a Roma e mi impegnai seriamente. Con la sua pensione di invalidità ci compravo i libri e ci vivevo. E sì perché intanto di figli ne vennero altri. Totale sette e mio padre ferroviere non mi poteva mantenere. Dopo la mia laurea ho avuto il desiderio di aprire un Centro di cure per la bocca di questi soggetti per i quali è difficile un approccio
ambulatoriale ed è pertanto necessaria una sala operatoria, un anestesista. Sono riuscito a realizzare, con l’aiuto dei miei preziosi collaboratori, due Centri di cura uno in Calabria dedicato ad Anna e uno a Roma. Duemila interventi in anestesia generale. Duemila tra autistici, cerebrolesi, psicotici, malati oncologici, epilettici, down, soggetti affetti da malattie rare. Di questi una buona parte la notte riposa senza dolori, ascessi. Assumono meno psicofarmaci e il giorno hanno una migliore vita di relazione. Anna è una di loro. Sta finendo le sue cure. Le erano rimasti 6 denti nell’ arcata superiore e sei in quella inferiore. Colpa di una odontoiatria mutilante forse perché loro non hanno gli stessi diritti degli altri. Anna porta un bloccaggio di protesi fissa in tutta la bocca. Quando si è svegliata dall’ ultima anestesia e si è accorta di avere i denti rideva come una pazza. Era contenta. Mi ha guardato negli occhi e mi ha ringraziato. È questo che Anna voleva da me, che la sua vita non fosse inutile. Voleva farmi capire che avevo un bel vestito da indossare e che forse senza di lei non lo avrei mai cercato e trovato. Sono le sei di mattina. È molto freddo a Roma. Venti bambini mi aspettano. Non posso tardare.